Il progressivo successo che ha accompagnato le esecuzioni con strumenti originali nel corso degli ultimi cinquant’anni, ha ragioni complesse anche se nello stesso tempo logiche.
Sono due i fattori principali che possono riassumere la riscoperta e il gradimento sempre maggiore della “musica antica”: comprensione semantica e utilizzo degli strumenti più idonei ad attuarla.
La prima è frutto di un vocabolario di gesti, pronunce ed espressioni, regolate da codici retorici che all’epoca governavano il senso, le emozioni e la struttura. L’impiego degli strumenti antichi, ne facilita ovviamente l’attuazione allora come oggi, perché la musica era stata ideata e composta per essi.
Uno degli equivoci che, a mio parere, ha però caratterizzato il percorso anche recente di studi “filologici” sul repertorio sei/settecentesco, riguarda il concetto di autenticità.
Per alcuni musicisti e studiosi è fondamentale riprodurre il suono, il timbro e l’evento, così come fu percepito allora, in una data occasione o secondo testimonianze, al fine di ottenere il risultato più vicino all’originale. Tutto questo supportato da trattati teorici, documenti o cronache dell’epoca.
Non mi interessa in questa sede approfondire il fatto che i dati in nostro possesso attestano una notevole libertà che abbracciava tutti i possibili aspetti esecutivi, timbrici e strutturali. Quello che mi preme invece sottolineare è che il termine “filologia”, applicato alla musica, dovrebbe intendere prima di tutto l’attuazione di un linguaggio coerente e consapevole che tuteli prima di tutto l’originalità, il senso e la potenza delle emozioni che il compositore voleva esprimere. Non una mera, stantia e inutile riproduzione di un (supposto) originale, ma il reimpiego di una lingua, di un idioma, che permetta di rivivere e mantenere intatte ancora oggi le sensazioni che la musica produceva a quel tempo.
A questo proposito, un aspetto che è spesso oggetto di discussione riguarda l’uso e il significato degli abbellimenti, argomento questo che richiederebbe centinaia di pagine.
In questo contesto è interessante rilevare il fatto che è opinione assai diffusa il ritenere che la musica di Bach non debba essere troppo abbellita, o addirittura niente affatto. La motivazione, brevemente, sarebbe quella di considerare la musica del “Kantor” già perfetta, completa ed esauriente nella sua complessità di scrittura.
L’esecuzione di Mauro Valli permette di non dovermi dilungare nel sostenere la mia assoluta convinzione che Bach, pur essendo un compositore ineguagliabile, era un’uomo e musicista del suo tempo, e che la sua musica, pur straordinaria e inarrivabile, rispondeva a logiche comuni a quelle degli altri compositori della sua epoca.
Infatti l’ascolto di queste Suites ci aiuta a comprendere e ci restituisce il vero senso del “da capo”, e attesta che i relativi ornamenti volgono a sottolineare e enfatizzare i passaggi e gli affetti, rendendo questa musica ancor più godibile, trascendendo una (presunta) autenticità, e contemporaneamente nell’assoluto rispetto di una filologia concreta, attuale e sincera.
L’accostamento con i Ricercari di Gabrielli, pur non suffragato da prove documentarie, è ancor più affascinante (non solo per le analogie relative alle tonalità e alla destinazione strumentale), se si pensa a un’altro autore italiano del ‘600, Girolamo Frescobaldi, che con i suoi “Fiori Musicali”, ebbe una notevole influenza su Bach e sulla sua produzione di carattere speculativo.